Negli stati balcanici, le cui frontiere sono mutevoli, ci si poteva imbattere nel XX secolo in un uomo che andava di città in città, di villaggio in villaggio.Viaggiava anche nei Paesi dell’Asia Centrale, spingendosi fin nel Nord dell’India.
Quest’uomo era un mercante di parole, come lo era stato suo padre. Nel corso dei suoi spostamenti raccoglieva parole qua e là, le pagava quando non poteva fare altrimenti e le proponeva a chi ne aveva bisogno.
Si trattava soprattutto di parole che si applicavano ad animali o ad oggetti sconosciuti. A dei montanari, per esempio, faceva conoscere vocaboli come “marea” e “onda” e spiegava loro i fenomeni che esprimono. A chi si teneva lontano dalla civiltà meccanica portava la parola “automobile”, la parola “aereo” o anche la parola “sottomarino”. In questo caso, per la dimostrazione si serviva di una pozzanghera o di una vasca d’acqua.
Nei paesi torridi parlava di “neve” e dei “ghiacciai”, ma non era facile vendere parole che designavano cose sconosciute. Percio’ in genere si accontentava di parole che si riferivano a cose pratiche, termini legati al mercato e all’industria; senza grande entusiasmo, ma bisognava pur vivere.
Da un viaggio in Portogallo aveva portato la famosa SAUDADE, un sentimento che si prova anche in Brasile: una tristezza che riflette una mancanza, un’assenza, relativa a qualcosa o qualcuno che avevamo e non abbiamo più.
In Spagna, aveva individuato e registrato CURSI, intraducibile in un’altra lingua se non con una spiegazione di una decina di righe, perché questa parola vuol dire sia un po’ fuori moda (ma non troppo), sia un po’ zotica ma con un che di simpatico, con buona volontà, gentilezza, un accenno di KITSCH, appunto, un desiderio di fare bene, di comportarsi bene, di rispettare le convenzioni sociali, le buone maniere, di tenere un contegno corretto. Eccetera. Non si finirebbe più di definire cio’ che la parola CURSI dice in un lampo.
Quando arrivava in questo o quel villaggio, in luoghi dove pochi viaggiatori osavano all’epoca spingersi, la gente del posto andava da lui, spesso in modo discreto, nel cuore della notte, e gli si rivolgeva come ad un confessore.
Le persone gli raccontavano delle cose, nel dettaglio, tentando di descrivere il sentimento che provavano e per il quale non riuscivano a trovare, nella loro lingua, la parola giusta.
Alla base infatti delle sue ricerche quotidiane, c’era una teoria molto seria e segreta, per quanto non formulata, teoria secondo la quale tutti i popoli viventi sulla terra pensano e sentono nella stessa maniera, solo che l’assenza di parole adeguate puo’ impedire, negli uni o negli altri, la manifestazione di questo o quel sentimento.
Ecco quindi che ci crediamo sprovvisti di cio’ a cui non riusciamo a dare un nome.
Nel suo archivio personale riservava un posto speciale alle parole preferite, che non costituivano necessariamente il grosso delle vendite. Riflettendo e confrontando, notava che la parola “ELEGANTE” è la stessa in una decina di lingue e per questo la riteneva una parola azzeccata.
La parola “MALINCONIA” lo induceva alle stesse riflessioni, perché certe parole hanno davvero un successo enorme anche senza un motivo ben preciso.
Si stupiva che la parola “CIOCCOLATO” fosse più o meno la stessa in tutte le lingue e che “FARFALLA” cambiasse invece radicalmente da un paese all’atro, pur conservando sempre una sonorità evocatrice e suggestiva: PAPILLON, BUTTERFLY, MARIPOSA, PARVANEH.
Con sincera tristezza insegnava e vendeva la parola spagnola DESPEDIDA, che indica un “addio per sempre”. Affermava che è impossibile pronunciarla senza che ti si stringa il cuore e ti salgano le lacrime agli occhi.
Nel corso di un viaggio in Iran scopri la parola TAROF, che non fece fatica a vendere in vari paesi dell’Asia centrale. TAROF si usa quando rifiutiamo un’offerta, anche se questa ci farebbe molto piacere.
Per esempio, siamo a cena da amici, non abbiamo l’automobile, è tardi, altri invitati ci propongono gentilmente di accompagnarci a casa e noi diciamo: “no, grazie, davvero, senza complimenti”.
Questo si chiama fare TAROF, un atteggiamento umano comune, una falsa cortesia, forse più diffuso in Iran che altrove.
Con il passare degli anni le sue ambizioni crebbero. Penso’ che con il suo piccolo commercio poteva rendere gli uomini migliori, insegnando loro per esempio, la parola “GIUSTIZIA”, diffusa un po’ ovunque in Europa, o la parola “COMPASSIONE”, che compro’ per una scodella di riso da un buddista affamato che tornava a piedi dal Tibet.
La seconda guerra mondiale rese difficili i suoi spostamenti, ma riprese in pieno l’attività nel 1944-45 guadagnando molto con nuove parole come “RADAR” e “BOMBA ATOMICA”.
Verso i primi anni ’70 notò una graduale diminuzione della curiosità presso i popoli che visitava, come se avessero meno bisogno di parole, in ogni caso di parole nuove, parole venute da altri luoghi.
Notò che la parola PARKING si diffondeva a tutta velocità come SHOPPING e WEEKEND.
Siccome tutte queste parole appartenevano alla lingua inglese, si disse che, così come gli inglesi erano usciti vincitori dalla guerra, anche il loro vocabolario faceva le sue conquiste.
Constatava sbalordito che la maggior parte degli abitanti della terra, invece di dire “sono d’accordo” ciascuno nella propria lingua, si accontentavano di un sommario ” OK “.
Si invitavano gli amici a bere un DRINK, si indossavano i JEANS, le T-SHIRTS, trangugiavano in tutta fretta al FAST FOOD e via dicendo.
Tutto era al TOP.
Negli anni ottanta vide apparire e diffondersi parole che non erano più di origine inglese e che, sebbene fino ad allora le avesse ignorate, adesso gli sembravano d’un tratto molto minacciose, come JIHAD e FATWA (e che poi sarebbero confluite in un termine ancora più inquietante come ISIS ).
Sentiva che il clima generale del mondo si stava pericolosamente modificando, se ne rendeva conto grazie al suo stesso mestiere.
Doveva infatti arrendersi alla triste evidenza: ogni giorno c’erano parole che sparivano, probabilmente per sempre, aspirate nell’abisso oscuro dell’oblio, che costituisce l’inferno del linguaggio a cui la nostra pigrizia spalanca le porte.
Era finito l’ottimismo magico del XIX secolo e della prima metà del successivo. Le orecchie umane si chiudevano alle parole degli altri.
Banalità universali – bla bla bla e linguaggi stereotipati – avvolgevano di anno in anno il pianeta in una rete di faciloneria, mediocrità e luoghi comuni.
Di conseguenza gli affari del mercante, cominciavano ad “andare a rotoli”, per usare una delle sue espressioni più amate.
Negli anni ’90 tentò di mettersi sul WEB, aprire un SITE, fare BLOG e CHAT, ma in materia di vocabolario ciò non lo portò lontano.
Benchè gli sembrasse inverosimile, l’umanità si accontentava di un vocabolario impoverito.
A volte osava persino immaginare un universo in cui, di notte in notte, certe stelle si sarebbero spente perché nessuno le guardava più.
Il mercante di parole, ultraottantenne all’inizio del 2000, andava di casa in casa, lentamente, tendendo la mano.
Come merce non aveva più niente da proporre a gente che, del resto, non gli chiedeva più niente.
Alla fine non sapeva dire altro che : PLEASE.
Morì da solo, da qualche parte su una strada di montagna e nessuno sa quale fu la sua ultima parola.
P.S.
Vorrei poter cambiare il finale del “mercante di parole” e chiedere a voi, con me, di continuare la sua storia, la nostra storia.
Quella di riconoscere le belle parole, le parole che contano e che arricchiscono davvero il nostro vocabolario.
Per esempio: COMUNITA’, PERDONO, BUON SENSO, DIALOGO, AMICIZIA, COMPASSIONE, MISERICORDIA, RISPETTO, GRATUITA’, VOLONTARIATO, PARRESIA (che vuol dire “dire la verità”, costi quel che costi).
E per voi qual è la parola di questa sera.
Scrivetela sul cartoncino e datela a chi volete.
La mia è GRAZIE!
Citazione: “ la più logora delle parole, prendila per mano” (Roberto Carifi)